Piazza San Pietro alle 5,30 del sabato mattina è deserta. Solo un gruppo di persone staziona lungo il colonnato in attesa di accedere al portico della basilica. Un gruppo di persone che man mano che passano i minuti ingrossa le proprie fila. Io sono tra loro. Mi accompagna Mirco, amico di tante avventure alla ricerca del bello. Siamo arrivati a Roma stanotte per assistere alla lettura all’alba de La terra desolata di Eliot nei cento anni dalla sua pubblicazione.
L’evento, promosso dal Dicastero della Comunicazione della Santa Sede, la Fondazione Fratelli Tutti e la Fabbrica di San Pietro, a cura di Nicola Bultrini, Francesco Napoli e Rossella Pretto, si intitola La Terra rifiorisce. Il portico è avvolto da buio. Introducono alla lettura quattro strumentisti dell’Orchestra di Piazza Vittorio. Segue un alternarsi, calmo e ritmato, di attori e poeti che offrono la loro voce alle parole di Eliot, parole dense, descrittive di un mondo dove tutto sembra ormai perduto. Sono le voci degli attori Maria Letizia Gorga, di Monica Nappo, di Edoardo Siravo e del poeta Giuseppe Conte. Un ritmico incalzare, preciso e inesorabile che cresce man mano che le luci del giorno iniziano ad apparire alle spalle dei lettori, rischiarando il colonnato e l’obelisco che fanno da sfondo alla scena.
Scorrono le parole, e aumenta la consapevolezza dell’importanza di partecipare a un gesto carico di un grande significato per il nostro presente.
Termina la lettura e provo ad avvicinare qualcuno dei protagonisti del reading, perché la loro arte ha permesso al testo di riaccadere e perché desidero comprendere che cosa ciò ha provocato in loro. Pino Pecorelli, direttore dell’Orchestra di Piazza Vittorio mi dice di sentire una forte sintonia con un testo che vive di contaminazioni e di rimandi ad altre opere; mi spiega che è uno scritto abitato da una spinta a non vivere prescindendo gli uni dagli altri, a incontrare e a lasciarsi incontrare, dinamica questa profondamente connaturata all’esperienza dell’Orchestra di Piazza Vittorio che mette insieme musicisti provenienti da culture e religioni differenti. È la testimonianza che un mondo non fatto di divisioni, ma di arricchimento reciproco dato dalle differenze è ancora possibile. Maria Letizia Gorga mi racconta di essere legata a La terra desolata da 32 anni, da quando la portò in scena al festival di Erice. Oggi più che mai, mi dice, ora che stiamo vivendo un nuovo periodo di guerra, è urgente riandare a questo poema. Così come mi ricorda che il fatto che si tratti di un testo visionario composto non solo ricorrendo a lingue diverse, ma anche attingendo a tantissime opere letterarie che lo avevano preceduto, rappresenta di per sé la cifra che dovrebbe caratterizzare l’uomo d’oggi, se non vuole condannarsi a continuare a vivere in quella terra desolata descritta dal poeta. Un testo quindi che nasconde al suo interno un invito alla riconciliazione, un monito affinché non prevalga la logica della guerra e della divisione. Un testo che invita a sperare, perché è sempre possibile sperare. Mi tornano in mente le parole di Giuseppe Conte; qualche giorno fa l’ho raggiunto al telefono per sapere come si stesse preparando a questo momento così particolare in un luogo simbolo come la basilica di San Pietro. Per me Eliot rappresenta una specie di ritorno a casa, mi ha risposto, perché è stato il primo autore che ho approfondito tra i modernisti, un poeta fortemente cristiano. E leggerlo nella basilica di San Pietro esalta il suo fascino perché è un luogo che chiama alla comunione tra gli uomini e alla condivisione di percorsi di pace. Un testo, dunque, mirabile e tremendo allo stesso tempo. Tremendo perché dichiarò, già cento anni fa, la fine dell’occidente; mirabile perché incita al suo stesso superamento, facendo comprendere la crisi in cui siamo immersi e al contempo il bisogno, la possibilità, di cercare sentieri luminosi per edificare un nuovo umanesimo. Forse, conclude Conte, il fatto che mi trovi a leggere proprio la parte che riguarda la figura di Tiresia rende ancora più forte questo mio convincimento: fa vedere l’orrore, ma insieme indica una via.
La luce bagna, ormai, tutta la piazza; l’oscurità, che prima vestiva le forme, cede il passo alla vista. La scelta di tenere la lettura all’alba forse non è stata casuale. Lo ha ricordato nel suo saluto conclusivo anche padre Francesco Occhetta, presidente della Fondazione Fratelli Tutti: nella vita c’è l’alba e il tramonto. Noi preferiamo decisamente l’alba.
Alessandro Vergni
Articolo pubblicato su L’Osservatore Romano del 22 ottobre 2022 – foto Mirco Lucaroni