Siamo sicuri che Andrà tutto bene? Mentre scrivo il bollettino della Protezione Civile segna numeri in crescita: quello dei contagiati, quello dei guariti e quello dei morti. I giorni che ci attendono hanno il sapore della trepidazione con cui gli abitanti delle città lungo i fiumi attendono la piena durante un’alluvione. Per non parlare dell’economia del Paese, non ci rendiamo ancora conto degli effetti disastrosi che tutto ciò avrà su lavoro, finanza e compagnia bella. Eppure la scritta Andrà tutto bene campeggia in migliaia di disegni con gli arcobaleni, sulla rete, sui quotidiani, lo gridiamo perfino dalle terrazze; sembra che sia divenuto lo slogan sotto il quale combattere. Andrà tutto bene, ripetiamo come un mantra, perché il cuore non può augurarsi che questo. Andrà tutto bene significa che dobbiamo sperare nel fatto che, in un tempo ragionevolmente vicino, si possa tornare alla normalità. La domanda però è: potrà esserci normalità dopo una tragedia collettiva come questa? O non dovremmo parlare, piuttosto, di normalizzazione, che è cosa ben diversa. Le guerre lo insegnano: ogni volta che si torna ad un periodo di pace i confini, quelli degli Stati e quelli delle anime, non sono più al loro posto. Anche da questo ci accorgiamo del fatto che la nostra generazione non ha conosciuto la guerra. Per i nostri nonni, o per i nostri genitori, a seconda dell’età, questo hastag non sarebbe stato possibile. Perché chi la guerra l’ha fatta, in trincea o da casa, sa che alla fine nessuno dice “per fortuna è andato tutto bene”. Anche quelli che nei titoli di coda si trovano dalla parte giusta della storia sanno di aver perso molto: padri, madri, figli, amici, patrimoni, case, certezze; hanno perso cioè il mondo per come era stato fino all’inizio del conflitto. Pure noi, come loro, una volta scampato il peggio, siamo destinati alla conta delle perdite. A questo non c’è scampo, per nessuno. Del resto, già ora, come possiamo dire con onestà che Andrà tutto bene? Per oltre 26.000 persone (solo per parlare dell’Italia) non sta andando per niente bene; per gli oltre 2.000 che sono morti e per i loro familiari è andata già fin troppo male. Possiamo veramente assumere come inno di battaglia una frase che non tenga conto della salvezza di tutti? A meno che non esista un senso diverso e più pieno di quel Andrà tutto bene; un senso per cui Andrà tutto bene rappresenti la prospettiva più ragionevole che ci sia. È il momento di riscoprire un racconto vivo che ci dice che Andrà tutto bene per il semplice fatto che è andato già tutto bene. Perché alcuni sanno che il nostro male, ben più letale di ogni pandemia, è già stato vinto. Chi vive questa esperienza attraverso un incontro eccezionale ha il compito di vivere e di portare in tutti i rapporti questo annuncio. Siamo chiamati a testimoniare la verità e il senso profondo di quella frase. Più volte in questi anni Papa Francesco ci ha detto che la Chiesa è un ospedale da campo. Nessuno immaginava che queste parole avrebbero avuto valore non solo metaforico. Questo momento ci chiama a riscoprire la fede, cioè la possibilità di vivere la certezza di non essere abbandonati nemmeno in questa circostanza. Non perdiamo questa occasione, ne va della possibilità educativa e di salvezza nostra, dei nostri figli e di tutti quelli che incontriamo. La Pasqua ormai alle porte ci dice che è andato già tutto bene. Siamo chiamati a riscoprirne il senso oggi. Ne ha bisogno la nostra vita; ne ha bisogno l’Italia affacciata la sera alle sei sui balconi.
Alessandro Vergni
Articolo pubblicato su L’Osservatore Romano del 18 marzo 2020