“Che cura può esistere per come è fatta la vita, voglio di’, è tutto senza senso, e se ti metti a parlà di senso ti guardano male, ma è sbagliato cerca’ un significato? Sennò come spieghi tutto, come spieghi la morte? Come se fa ad affrontare la morte di chi ami? Se è tutto senza senso non lo accetto, allora vojo mori’”.
Daniele ha vent’anni, una dipendenza da sostanze e un desiderio di significato vertiginoso. Una miscela esplosiva. È per la combinazione di questi elementi che si trova ricoverato in TSO (trattamento sanitario obbligatorio) dopo una serata in cui ha dato in escandescenza. Ora dovrà affrontare una settimana di convivenza forzata con cinque persone pazze più di lui, ferite dalla vita come lui. Sette giorni di puro calvario, di iniziale rifiuto della realtà e degli attori che vi prendono parte. Chiuso in una camerata asfissiante per il caldo, per il cattivo odore, per l’iniziale incomunicabilità umana. Sette giorni di viaggio al centro del dolore. Da quello dei compagni di stanza a quello del personale medico, che più che prendersi cura, sembra occupato a limitare i danni dei pazienti. Sette giorni di incontri imprevisti; con Mario ad esempio, l’anziano maestro impazzito, che porta i capelli come Brian May, chitarrista dei Queen, e uno sguardo profondo e lucido sul mondo; con Giorgio, gigante rimasto bambino; con Pino e Mancino, operatori sanitari prigionieri quanto i pazienti del reparto, a dimostrazione che la prigionia non è una questione di mura ma di sofferenza dell’anima. Sette giorni per scoprire la propria miseria e il male generato, coscienti o no, nelle vite degli altri.
E poi quella cantilena, quella litania. Viene dai uno dei letti della stanza e in modo ossessivo irrompe per 18 volte sulla scena come un colpo di fucile, quasi un coro della tragedia greca: “Maria ho perso l’anima. Aiutami Madonnina mia”.
Sette giorni per iniziare a risalire la china dell’abisso nel quale si è sprofondati e per imparare a guardarsi nuovamente allo specchio, per iniziare a camminare verso le persone che ci amano.
Sette giorni per iniziare a capire che la scintilla che accende la vita è la bellezza. “Che gli artisti, come certi matti hanno il dono di guardare tutto per come era veramente prima, prima di quella cosa che è successa e cha ha cambiato tutto”.
Una giostra di emozioni che va in scena nell’afosa estate dei Mondiali d’America.
Tutto chiede salvezza (Mondadori), il nuovo libro di Daniele Mencarelli va dritto al centro della questione: è possibile che tutto abbia senso? È possibile che tutto questo sia la strada da percorrere per diventare uomini e salvarsi? Lo aveva già fatto con La casa degli sguardi (Mondadori), romanzo autobiografico nel quale racconta l’inizio della sua redenzione attraverso il lavoro da addetto alle pulizie all’ospedale Bambin Gesù.
Una scrittura asciutta, che non risparmia niente della durezza delle cose; una narrazione capace di ridare dignità a ciò che, come prima reazione, vorremmo fuggire.
È Mario il personaggio centrale con Daniele in questo dramma. In uno dei tanti dialoghi dice: “…Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato. Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba andare in crisi”.
La vera pazzia, sembra dire Mencarelli , non è quella da curare con gli psicofarmaci, ma quella di voler a tutti i costi negare la domanda di senso che l’impatto con la realtà provoca. Un impatto che porta con sé la ferita dell’accorgersi che non possiamo garantire la salvezza nostra e di quelli che amiamo.
Tutto chiede salvezza mostra che non esistono condizioni che impediscano all’uomo di camminare verso una coscienza maggiore di sé. Un libro sull’importanza di incontrare altri lungo il cammino.
In questo tempo di clausura forzata, trovare un libro come questo, è trovare un amico. Da ogni parte ci sentiamo dire che questa emergenza, con la sua imposizione a restare isolati è l’occasione per tornare in noi stessi, ma sarebbe una pazzia non accorgerci della ferita che ci portiamo dentro: che per vivere e per conoscere noi stessi abbiamo bisogno degli altri. “Io è un altro”. Lo scrive Rimbaud nel suo Una stagione all’inferno. Lo dice Mario a Daniele in quell’estate del ’94. Oggi più che mai, dobbiamo ridircelo noi.
Alessandro Vergni
Articolo pubblicato su Il Tirreno ed. di Grosseto il 22 marzo 2020