“Siamo alle porte co’ sassi” è un antico detto fiorentino che risale all’epoca in cui la città stava ancora chiusa dentro le mura. Essere “alle porte coi sassi” indica quelle situazioni in cui c’è l’imminenza di una avvenimento e ci si accorge che siamo in ritardo.
Lunedì 14 settembre le mura dell’estate cederanno finalmente alla riapertura delle aule scolastiche. “Siamo – quindi – alle porte” e abbiamo l’impressione di essere in ritardo, “co’ sassi” appunto. Mai come quest’anno varcare il portone di scuola sarà caratterizzato da passi incerti. Ai tanti problemi strutturali nei quali la scuola da sempre si dimena, quest’anno si è aggiunta un’ipoteca ancora più grossa: il virus. Così, Ministero, Uffici Scolastici Regionali, Dirigenti, docenti, collaboratori e via discorrendo, sono stati obbligati a spendere le settimane estive nell’individuazione di infinite soluzioni, al limite del parossismo, studiando protocolli, spazi dimezzati, modalità per usufruire dei bagni e mille altri accorgimenti affinché la scuola non debba chiudere già il 15 settembre. E’ comprensibile l’affanno causato dalla situazione presente – e da un Ministero che a volte dà l’impressione di non sapere bene che pesci prendere, così come avviene, del resto in altri settori. Quello che però lascia sgomenti è come il problema sanitario sembri occupare al 90% le energie, le attenzioni e le aspettative di tutti: famiglie, docenti, studenti – loro per fortuna un po’ meno. E se la sfida della scuola quest’anno non stese solo lì? Se riaprire la scuola – chiusa, lo ricordiamo, da marzo scorso, nonostante la DAD – significasse invece ridare ossigeno alla speranza dei nostri figli? Siamo davvero sicuri che quello che si aspettano dall’anno scolastico 2020/21, dopo aver attraversato la tempesta, siano solo protocolli e mascherine, pur necessari a scongiurare il peggio? La scuola non dovrebbe avere la funzione di accompagnare, attraverso le materie e i contenuti proposti, le nuove generazioni a riflettere sul percorso che la storia ha compiuto fin qui, sulle risposte trovate da scienziati, artisti, politici anche durante i periodi di grandi crisi a livello planetario? Non serve forse, la scuola, a contribuire alla ricerca di significato della vita dei ragazzi, a cercare di capire cosa c’entri con loro quello che gli accade intorno? Invece si ha l’impressione che il problema educativo sia stato sostituito da un problema di tipo contenitivo, come se il virus avesse messo ancor più in evidenza la crisi della mission della scuola. Verrebbe da dire che mai come ora si avverte il bisogno di una scuola che sia scuola e non sia solo adempimenti burocratici da assolvere, libera finalmente da spesso inutili formalismi – si pensi ad esempio ad una formazione docenti ormai assorbita quasi esclusivamente da percorsi su metodologie didattiche e implementazione di protocolli per il rispetto delle normative piuttosto che sui contenuti. Se quest’anno così stralunato fosse invece capitato apposta per darci uno scossone e farci fare un passo avanti rispetto allo scopo per cui la scuola esiste, creare persone adulte, cioè libere? Educare: far emergere l’altro camminandoci insieme ogni giorno per 200 giorni. Non è roba da poco ed è una missione che chiede la dignità delle mani libere dai mille cavilli nei quali ormai da decenni siamo tutti imbrigliati. Rimettere al centro lo scopo dell’insegnamento. Farlo per gli studenti e per i docenti. Aiutare i giovani a scoprire chi sono. Sarebbe un piccolo cambiamento quasi impercettibile che aiuterebbe, però, i ragazzi a sentirsi presi in considerazione non come unità da distanziare e da sorvegliare, ma come persone che si affacciano alla vita in questo momento aspettandosi tutto. Potrebbe poi favorire, in tanti docenti, la riscoperta del vero motivo per cui hanno scelto una professione che non ha pari altrove. Forse, il condizionale è d’obbligo, questo riposizionamento dell’attenzione potrebbe essere l’effetto collaterale imprevisto di questa infelice situazione. Per fare tutto ciò non occorre attendere l’ennesima riforma del Ministero di turno, ma cercare la voglia di ripartire, personalmente, cioè insieme. “Siamo alle porte”, è vero, ma è sempre possibile cambiare.
di Alessandro Vergni – Articolo pubblicato su Il Tirreno del 13 settembre 2020.