“Se ogni storia è storia di salvezza, allora l’arte e la poesia possono rivelarsi strumenti di riscatto della dignità di ogni singolo individuo” (dalla prefazione di Andrea Monda). Questa frase riassume molto bene la traiettoria del lavoro compiuto da Nicola Bultrini, poeta e scrittore romano, con il suo Con Dante in esilio, Edizioni Ares. Bultrini compie un viaggio, a partire da vicende legate alla sua famiglia, arrivando a dischiudere davanti ai nostri occhi un mondo di testimonianze su come arte e poesia abbiano rappresentato, all’interno dei campi nazisti, uno strumento di resistenza umana alla barbarie. Nel libro si raccontano storie e aneddoti di personaggi poi divenuti scrittori o artisti famosi, come Giovanni Guareschi o Carlo Emilio Gadda, per citarne solo alcuni, così come di tanta altra gente comune che è ricorsa ai versi di Dante, al teatro, alla musica per preservare la propria anima dentro alla brutalità. Ma non solo di sopravvivenza si trattò, se è vero, come racconta lo stesso Bultrini, che la poesia e l’arte non ebbero solo una funzione consolatoria dai mali, ma innanzitutto una funzione conoscitiva della propria situazione descritta fin troppo bene da qualcun altro, in terzine, tanti secoli prima. Leggere certe opere, assistere al teatro, contemplare delle opere pittoriche, oggi come allora, consente infatti di compiere un viaggio all’interno del proprio essere, di comprendere meglio cosa sia l’uomo e di esplorare in modo più profondo la realtà che ci circonda.
Ecco allora che un’opera come la Divina Commedia, per i temi trattati, per i comportamenti umani contenuti, per la vibrazione umana che fuoriesce dalle terzine, fatte di musicalità, di respiri, di movimenti, in ogni epoca è stato uno tra gli strumenti privilegiati di questa dinamica conoscitiva. Nel caso poi del periodo storico affrontato dal libro, ricorrere alla Commedia fu ancora più immediato per l’identificazione da parte degli internati tra la loro condizione e i gironi infernali dei lager, oltre al fatto che stessero vivendo tutta quella tragedia in esilio, proprio come Dante si trovava in esilio durante la stesura della sua opera.
Al di là, però, del dato storico e degli aneddoti bellissimi e spesso sconosciuti che sono raccontati nel testo, quale è la vera utilità di una lettura di questo tipo? Verrebbe da dire che in fondo l’esilio, questa vecchia forma di condanna che veniva comminata – o liberamente scelta – quando le condizioni politiche non consentivano di rimanere in patria, non ci riguarda più, e che il termine stesso potrebbe essere messo nel mausoleo delle parole desuete, come qualcosa da guardare con rispetto, il rispetto dovuto a coloro che ci si trovarono; mentre noi per fortuna non ci dovremo certo fare i conti. Invece esilio è una parola che riguarda profondamente la nostra quotidianità. Quella dell’esilio è un esperienza umana che incontriamo molte volte, magari uscendo di casa o andando a fare la spesa, se pensiamo a quanti sono costretti in modo più o meno volontario a lasciare la propria patria in cerca di salvezza altrove; così come esiste un esilio obbligato per tantissimi giovani, anche della nostra Maremma, che, non trovando qui le condizioni per costruirsi una vita, sono costretti prima ad andare via da Grosseto e poi, in seconda battuta, a lasciare anche l’Italia. C’è infine un esilio più intimo, meno visibile ma non meno doloroso, ed è quello che vive in tanti rapporti tra le persone, o quello dei ragazzi che adolescenti, pur continuando a vivere nella patria familiare, scelgono il confino volontario della propria stanza. A tutti loro, a chiunque si senta in esilio e cerchi in modo autentico una via di salvezza si rivolge questo libro che, parlando di internati di guerra, parla in realtà ad ognuno di noi invitando alla scoperta, sempre sorprendente, della Commedia. A 700 anni dalla sua morte, Dante continua ad essere un compagno di viaggio attendibile per tornare, quanto prima, a “riveder le stelle”.
Alessandro Vergni
Articolo pubblicato su Il Tirreno del 29 settembre 2020