Più soli e più vulnerabili

Nel suo saggio Bowling alone. The Collapse and Revival of American Community. (2000) Robert D. Putnam, parlando del capitale sociale, quell’insieme cioè di risorse che ogni individuo è in grado di ottenere dalla sua rete di relazioni, afferma: «Creare il capitale sociale non è un compito semplice. Sarebbe facilitato da una crisi nazionale palpabile, come la guerra o la depressione o il disastro naturale». Un lavoro pubblicato vent’anni fa e che rappresenta oggi un utile punto di osservazione per guardare a se stessi in questo apparente non-movimento a cui siamo obbligati.

Parole che riportano in luce un elemento per troppo tempo trascurato: la nostra rete relazionale, l’abito del quale, consapevoli o no, si riveste la nostra vita. L’uomo è un soggetto che vive in rapporto con il contesto umano che lo circonda. Ci viene ripetuto dai tempi di Aristotele che affermava che l’uomo è un animale sociale, e non sono mancati nel tempo, in tutti i campi del sapere, punti di richiamo su questo. Un elemento, però, non molto valorizzato – in molti casi addirittura avversato – nell’età contemporanea, a causa del costituirsi di un’idea di società che predilige un’impostazione della vita di tipo monadico. L’uomo si trova spinto ad una spasmodica autoaffermazione con la conseguenza che la presenza dell’altro finisce per costituire un ingombro più che una risorsa. Lo dimostrano due fenomeni quotidianamente sotto gli occhi di tutti: il tasso di denatalità che corrode dall’interno le società occidentali e la capacità sempre minore di lavorare insieme. Nel primo caso, pur dovendo tener conto di tanti fattori che incidono sul progressivo invecchiamento della società, mancanza di lavoro – o surplus di lavoro, a seconda dei casi – condizioni di vita stressanti e altro, dobbiamo ammettere che in una traiettoria di autorealizzazione incondizionata, in cui quello che conta è la gratificazione data dal proprio successo – a qualunque livello lo si persegua – il fatto di prendersi cura di altri, magari più deboli, rappresenta un rallentamento nella corsa. Pensiamo alle energie, non solo a quelle finanziarie, che occorrono per tirare su dei figli o per accudire gli anziani, per doversi confrontare con coniugi, compagni, ognuno declini secondo la propria cultura di riferimento, negli inevitabili conflitti della quotidianità. Nel secondo caso, invece, osserviamo contesti lavorativi i quali, pur organizzati e strutturati in modo sempre più funzionale, nascondono al loro interno un livello di incomunicabilità profondo. Chi lavora nella comunicazione delle organizzazioni, di qualsiasi natura esse siano, se ne rendo bene conto, perché, in certi contesti, dovendo comunicare il valore di quelle realtà, scarsamente si riesce a metterne in evidenza l’anima. Potremmo anzi dire che lo sviluppo talvolta esasperato degli aspetti organizzativi costituisca un primo livello per mettere l’uno al riparo dall’altro, un escamotage per delegare al sistema una responsabilità che attiene invece alle persone che lo compongono e che non può essere elusa, un’apparente soluzione per cercare di eliminare in modo definitivo la fatica di mettersi in dialogo tra persone libere. Ecco allora che, in caso di insuccesso, più che cercare di capire cosa non funzioni a livello di struttura, è opportuno porsi una domanda più profonda: quale è lo stato delle relazioni tra le persone che compongono quel sistema?

In tanti altri ambiti possiamo vedere la declinazione di questo fenomeno e lo stato di disgregazione della società in tutti i suoi settori è evidente senza bisogno di essere qui approfondito. Da un punto di vista socio-politico questo rappresenta un terreno molto insidioso. Gli uomini, quando sono soli, sono più vulnerabili e privi di quegli anticorpi necessari per fronteggiare un potere che assume di volta in volta forme diverse e impercettibili. Ad esempio, quella di un controllo attraverso un complicatissimo sistema burocratico che tiene occupate energie e risorse nel cercare di rispondere ad adempimenti piuttosto che a profondere se stessi in processi creativi e generativi, di contagio positivo di idee e di buone pratiche. Non è un caso se i Romani, che di gestione del potere qualcosa sapevano, avessero adottato come principio e modello di gestione per il loro dominio il divide et impera. E’ allora opportuno rimettere al centro il capitale sociale e affrontare il tema in maniera non astratta. Smettere di invocare sistemi sempre più perfetti, come profetizzava il poeta inglese T.S. Eliot nel suo dramma “I cori da La rocca” già negli anni Trenta del secolo scorso – perfetti perché in grado di sostituirsi alla libertà e alla responsabilità personale attraverso la perfezione dei loro ingranaggi di funzionamento – ma rintracciare quella rete di rapporti di cui ognuno gode. È necessario ripartire da un’idea di persona e non di individuo. Individuo è infatti un termine che fa riferimento al nostro essere soggetti indivisibili, ma non dice molto di più; persona invece allude, per la sua etimologia, alla maschera del teatro, quindi allo spazio in cui agiscono uomini e donne in dialogo tra loro e con il pubblico. Uno spazio che si nutre innanzitutto di rapporti. Il capitale sociale rappresenta un punto focale per la crescita e lo sviluppo della società perché è un punto essenziale per la crescita e lo sviluppo personale. La pandemia ha significato un’ulteriore e durissima prova per i nostri rapporti. Costretti all’isolamento di questi mesi, in molti pur nella nuova fase in cui stiamo un po’ per volta tornando ad una quasi normalità, avvertono una strana inquietudine, perché si sono scavati profondi fossati tra le persone. Non possiamo essere ingenui e pensare che il distanziamento sociale abbia riguardato solo i corpi. Esso ha inciso profondamente anche sulle anime. Uscendo di casa dopo 3 mesi e guardandoci allo specchio ci troviamo inevitabilmente un po’ fuori forma. Non fermiamoci a quello e chiediamoci attentamente in che condizione si trova la nostra rete relazionale. Essa avrà sicuramente bisogno di tanta attenzione. Non tralasciamo di prendercene cura. Come lascia intravedere Putnam, la pandemia potrebbe essere la chiamata, speriamo non l’ultima, per ripensare al nostro capitale sociale in modo più vero. Siamo ancora in tempo per rendercene conto.

Alessandro Vergni

Articolo pubblicato su L’Osservatore Romano del 3 giugno 2020.

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