Saggista e critico letterario, Filippo La Porta è autore tra gli altri de La nuova narrativa italiana (1995), Pasolini, uno gnostico innamorato della realtà (2002) e Pasolini (2012). Due dei suoi ultimi lavori, Il bene e gli altri (Bompiani, 2018) e Come un raggio di luce (Salerno Editrice, 2021), sono dedicati alla scoperta di come la lezione di Dante rappresenti una luce per leggere e guidare il nostro tempo.
Nei suoi ultimi saggi lei affronta due temi cardine: l’educazione e il rapporto con gli altri. Lo fa partendo da Dante, un uomo distante dal nostro modo di concepire la vita. Perché questa scelta?
C’è un elemento autobiografico che forse non ho mai raccontato prima: ho avuto una nonna fiorentina che con il suo accento stupendo mi diceva versi di Dante a memoria. Mia nonna è quindi come il garante della mia operazione dantesca. A Dante poi mi sono riavvicinato durante il mio soggiorno negli Stati Uniti. Per gli americani Dante è un vertice della letteratura universale, non appena di quella italiana. Mi sono allora detto: ci sono americani che passano tutta la vita a studiare Dante, che studiano l’italiano per 40 anni solo per leggere la Commedia, possibile che io non l’abbia più ripresa in mano dai tempi del liceo? È come nato un senso di colpa. Mi sono rimesso al lavoro su tutte e tre le cantiche e ho trovato in Dante una possibile risposta ai miei dilemmi morali, cioè al tema del bene e del male, perché qui sta la questione fondamentale dell’essere uomo, non ce ne sono altre. Certamente si tratta di un uomo del medioevo che ha quella concezione della vita. Non possiamo chiedergli di essere un progressista di oggi. Dobbiamo però individuare in lui alcune verità morali che ci riguardano direttamente e che sono senza tempo. Occorre leggere i classici con amore, con pazienza, saperli ascoltare e alla fine vedere se riusciamo a farli dialogare con noi. Ecco, Dante sulla questione del bene e del male può giustamente dialogare con noi. Aggiungo, poi, che non possiamo lasciare Dante ai filologi e agli studiosi. Dante ha scritto la Commedia per ogni lettore. C’è in essa l’appello a una conversione non appena religiosa, ma anche intellettuale e del cuore. Mi chiedo, ad esempio, cosa significhi per lui eternarsi; come un uomo dentro un’esistenza che è finita, mortale, si eterna?
Nel suo percorso cita più volte Simone Weil. Cosa c’entra questa grande filosofa del Novecento con Dante?
Ho applicato al mio primo saggio sulla Commedia la frase tratta dai Quaderni di Simone Weil che dice «il bene è dare realtà agli altri, il male è togliere realtà agli altri». Una frase semplice e geniale. Ho provato a leggere la Commedia alla luce di questa frase e mi sono accorto che funziona. Per dire, i peccati capitali nascono tutti dalla sostituzione della realtà con qualcosa di fantasmatico, di immaginario, sono invidioso di te perché immagino che tu sia più felice di me. I peccati nascono dall’ipertrofia dell’immaginazione, come mostra anche Dostoevskij ne Le notti bianche. Chi pecca è qualcuno che desidera vivere in un mondo in cui c’è solo lui. Lucifero non vuole che ci sia nessun altro all’infuori di lui. È anche la definizione del potere secondo Elias Canetti: il tiranno è colui che vuole sopravvivere a tutti gli altri. La frase di Simone Weil mi permette di fondare la morale in un modo non moralistico. Mi comporto bene non per obbedire a un precetto — qui sta la questione educativa — ma perché se il bene è dare realtà agli altri, solo comportandomi bene allora do realtà al mondo facendolo esistere. Il primo atto dell’etica è: meglio l’essere che il nulla. Mentre uno potrebbe sempre scegliere il nulla. È una fondazione ontologica dell’etica, basata sulla realtà.
Parlando del rapporto con gli altri lei dice che siamo animati dal desiderio di aiutare le persone, eppure — sostiene — il prossimo non sempre vuole essere aiutato da noi. Forse gli altri hanno bisogno solo di essere riconosciuti nella loro unicità? Ho trovato nella sua lettura un superamento del principio volterriano per cui la mia libertà finisce dove inizia la tua.
Potrei dire così: non tanto la mia libertà finisce dove inizia la tua, ma la mia libertà si completa solo se io ti riconosco. Mi si potrebbe obiettare: se l’altro è un prepotente, un violento, cosa significa “lasciar essere l’altro per quello che è”? La mia risposta è che il prepotente, il violento, è colui che impedisce alle persone di essere quello che sono. È lui che incrina l’ordine, l’equilibrio. L’azione sul prepotente, allora, deve servire solo a ristabilire l’ordine. Per Dante l’obiettivo della politica è la pace universale. Questa è sempre un movimento verso e non sarà mai pienamente raggiunta. Occorre però avere sempre presente che l’obiettivo della politica è una pace stabile, perché solo in essa ognuno può essere quello che è. Ciò significa che nella storia esistono anche guerre giuste, però dobbiamo ricordare due cose: che l’obiettivo resta comunque la pace universale e la riconciliazione con il nemico, il che dà una misura e un limite alla mia violenza; e che chi usa la violenza, anche temporaneamente per ristabilire quell’ordine, ne rimane segnato per sempre.
Tornando a Dante, ci troviamo di fronte a un uomo che ha delle certezze granitiche e che incarna una fede assoluta verso un Dio artefice di un ordine buono. Al tempo stesso nel suo essere viator sviene, ha paura, non capisce, inciampa. È forse per questo che lo sentiamo così vicino a noi?
Ci sono in Dante delle contraddizioni. Da un lato vuole combattere gli eretici, elogia i condottieri e gli imperatori; dall’altro elogia san Francesco perché, facendosi pusillo, ha fatto esistere di più il creato. Così come esalta le figure di Rifeo o di Romeo di Villanova. Come stanno insieme questi elementi? È impossibile trovare una sintesi. Nel mio libro provo a far dialogare queste contraddizioni. Quando ad esempio Brunetto Latini gli parla dell’eternarsi, parla ancora della fama legata alla gloria letteraria. Dante ha però un fortissimo senso della precarietà di tutto ciò che esiste. Una concezione molto moderna. Nell’ultimo canto del Paradiso dice in modo meraviglioso: «Così la neve al sol si disigilla». C’è dunque per lui un altro modo di eternarsi ed è quello di san Francesco, di Rifeo, di Romeo di Villanova.
Possiamo dire che la «Commedia» è anche un poema laico?
Romano Guardini, che è stato un grande teologo, ha detto che la Divina Commedia non è un poema religioso. In effetti di Dio se ne parla con una certa riservatezza. Quando Dante lo vede la prima immagine che ne ha è il vedere il mondo tutto unito «Nel suo profondo vidi che s’interna ,/ legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna». Dio quindi in prima battuta compie il legame d’amore che c’è in tutte le cose. A questa verità prima può consentire anche un lettore ateo.
Dante non si fa problema di mettere amici e maestri all’Inferno…
Lo fa perché è certo che esista un ordine buono e che questo non dipenda da lui. La modernità al contrario sta quasi tutta dentro ad una sensibilità gnostica. Vale così per Leopardi, per Pirandello, per Beckett, per De Sade. Si ritiene che esistere sia male e che nascendo siamo finiti in una trappola diabolica, che tutto sia destinato a finire. Fanno eccezione a questa concezione nichilista le donne che hanno rappresentato il pensiero femminile del Novecento: Simone Weil, Hannah Arendt, Maria Zambrano, Edith Stein. Nel libro le chiamo le Beatrici novecentesche.
Un altro tema su cui lei pone attenzione è quello del guardare.
Nel Purgatorio, davanti a coloro che stanno espiando con gli occhi cuciti dal fil di ferro, e che non lo possono vedere, Dante abbassa lo sguardo. Lo fa perché vuole stabilire con loro un rapporto reale basato sulla reciprocità. Ma guardare ha a che fare anche con la conoscenza. Incontra san Bernardo e gli domanda come mai in Paradiso i bambini non siano tutti alla stessa distanza da Dio. San Bernardo risponde «Ben te ne puoi accorger per li volti / e anche per le voci puerili, / se tu li guardi bene e se li ascolti». Se guardi bene, se ascolti la realtà, alla fine comprendi qual è la sua verità. Per Dante la verità non è qualcosa che si cerca, ma qualcosa che s’attende. Nella relazione con l’altro devo aspettare che la sua verità si manifesti. Si tratta di una passività ricettiva, devo essere vigile, attento.
Dante era anche un politico. Un politico esiliato dalla sua patria. Cosa ci insegna oggi questo?
Quando all’inferno Farinata se lo trova davanti ha come prima preoccupazione quella del partito: in che fazione stavi? Lui invece ha un’ottica più ampia dell’agire politico. Nel De Vulgari eloquentia scrive «noi, cui patria è il mondo, come per i pesci il mare». Dante appartiene al suo municipio, è convinto che la politica sia fatta di appartenenze e di doveri civici, ma ci dice: noi apparteniamo all’umanità, al mondo. C’è uno sfondamento universalistico della concezione politica. Per quanto riguarda la patria, in un mio libro precedente sostengo che un conto è quella in cui nasci, altro quella che ti scegli. Io sono romano, italiano, è indiscutibile. Però ha quasi più importanza l’appartenenza e il radicamento che nella vita ho scelto. Il mio radicamento è soprattutto nella letteratura, tanto che se incontro un americano appassionato di Dante lo sento più fratello di un italiano che magari a queste cose non è interessato. La patria scelta è più bella. Dice lo scrittore libanese Amin Mahalouf: «Le radici in terra ce le hanno solo gli alberi, l’uomo ha le sue radici in cielo». Questo ti fa anche pensare alla libertà che abbiamo.
di Alessandro Vergni
Alessanddro Vergni
Articolo pubblicato su L’Osservatore Romano del 15 luglio 2021.