Sfidare se stessi per superare il limite, per non invecchiare mai, per essere sempre all’altezza, per opporsi alla morte che viene. Resistere al tempo e ai suoi effetti cambiando senza sosta. Adattarsi per sopravvivere. Lo chiedono questi anni, lo chiedono il lavoro, i rapporti; lo impone quel nuovo diktat chiamato resilienza.
Partecipo ad una cosa strana, dal sapore antico, una cosa che col cambiamento vitalista ha poco a che fare: la Visita alle Sette Chiese, gesto della devozione popolare medievale riscoperto da San Filippo Neri. Un cammino che conduce la tiepida notte romana da una basilica all’altra. Ad ogni sosta una meditazione.
Da Santa Maria in Vallicella a San Pietro; lungo le banchine del Tevere, attraverso Testaccio fino a San Paolo Fuori le Mura; la Garbatella, la Cristoforo Colombo e su a San Sebastiano; la zona delle Catacombe, tagliando il buio dei prati in assoluto silenzio; dal Quo Vadis per l’Appia antica e lungo le mura, fino a San Giovanni in Laterano; poco distante, Santa Croce in Gerusalemme; sotto la Tangenziale Est verso San Lorenzo al Verano e da lì, con la Sapienza alle spalle, irrompere nell’atrio di Roma Termini, tra i senza tetto e i primi viaggiatori del mattino, cantando con le energie rimaste, dritti a Santa Maria Maggiore.
Un flusso di gente che cammina insieme. Un cammino costellato da quelli che passano con l’auto e, capendo cosa fai – o forse proprio perché non lo capiscono – sparano fuori, dai finestrini ciechi, bestemmie più alte della musica a manetta.
Incontri, mai casuali, come quelli con i ragazzi che affollano i tavolini dei bar sui marciapiedi: di cosa si tratta?… Dove andate? San Paolo fuori le mura… E dopo?…
Una notte fatta di volti che diventano compagnia. Ognuno è lì per un motivo suo: chi è in un momento familiare difficile, chi sta cercando un lavoro al ritorno dall’estero, chi ha problemi con gli amici, chi vuole ringraziare per un dono ricevuto, chi è lì perché ancora non sa perché, ma qualcuno l’ha invitato e lui gli ha detto di sì.
Tutti a camminare. Tutti sulla strada, tra i marmi delle facciate e i sacchi dell’immondizia fuori dai cassonetti; tra il reggaeton dei locali e il desiderio di capire qualcosa di più della propria vita, di non essere soli, di arrivare alla fine. Magari stremati, ma arrivare.
Questo cammino è lungo 25 km, tuona la voce di chi guida al microfono. Si parte con l’impegno di farlo tutto, come la vita. Avvertiremo la fatica, e capiterà di perdere il controllo, ma lo scopo è proprio rendersi conto che non è tutto in mano nostra. Il pellegrinaggio è metafora, esercizio che prepara, passo dopo passo, all’incontro definitivo.
Ripenso a quella cosa della sfida con se stessi, al proprio limite. Resistere al tempo che passa non serve, l’equilibrio che cerchiamo, la misura, non salvano. Bisogna arrivare in fondo, questo sì, rispondendo a qualcuno che ci chiama istante dopo istante e accetta tutto di noi, anche il nostro fallimento; qualcuno che ama il nostro andare, che cammina in mezzo a noi e ci precede attendendo il nostro sguardo.
Abbandonarsi, non resistere; dicono sia questa la chiave della felicità.
Alessandro Vergni