Nella selva

“Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura,/ che la diritta via era smarrita”. Eccoci qua, sprofondati nello sfasamento più totale. Dante ancora non sa che quello è l’inizio del suo grande viaggio, un viaggio che dovrà fare senza averlo deciso, ma ci dice immediatamente di ritrovarsi nello smarrimento, quasi ad ammettere che il primo punto da affrontare è prendere coscienza del proprio limite. E poi quell’uso di nostra vita non concordante con mi ritrovai: di chi sta parlando? Di noi? Di sé? L’effetto di questo gioco è che perdiamo l’equilibrio e ci sentiamo sin dal primo verso risucchiati con lui in quello scenario da brividi. Cosa ha determinato per Dante questa perdita del ritmo delle cose ordinarie? Troppo spesso, avvicinandoci alla Commedia, ci immaginiamo quello stato di prostrazione come se fosse dovuto solamente ad una condizione alta, intellettuale. Colpa di un certo modo di fare scuola e del suo tentativo di scarnificare la vita degli autori, ponendoli come immaginette sacre sopra altari coperti di incenso, rendendoli cose da addetti ai lavori o tutt’al più roba da secchioni. No. Qui Dante sta parlando di ferite profonde e ancora aperte, di ferite derivanti da una vita pienamente vissuta. Da qualche tempo ha perso Beatrice, la donna per la quale si era acceso il suo cuore per le vie di Firenze; ci sono i dissidi politici con i suoi tanto poco amati concittadini – andate a vedere la condanna con la quale il Sommo venne esiliato in contumacia: accusato praticamente di tutto, se acciuffato, destinato al rogo. E poi la situazione di grave confusione politica dell’Italia e della Chiesa. Ovunque si voltasse, Dante non poteva che sentirsi smarrito. Se lo deve essere domandato ad ogni passo: ma che razza di fase è questa? Era solo a metà del cammino e già per una selva oscura. Quella selva è dunque fatta della privazione del suo amore, della lontananza forzata dalla sua città e dagli amici, in giro per l’Italia, ospite a turno di chi avesse piacere – e comodo – di ospitare lui, già persona famosa. Dante, uno che non riusciva a tornare a casa perché non poteva e forse nemmeno voleva più. Così, la diritta via era smarrita. Se lo sarà ripetuto sicuramente, cavalcando da una parte all’altra dell’Appennino: mi sento fuori fase. Costretto a lavorare, come tutti, e nel frattempo a portare avanti il suo lavoro culturale. Ambasciatore e intermediario per gli uni e per gli altri per mangiare quel pane salato, ancora più amaro per chi è fuori casa. Destinato a morire durante un viaggio per andare a trattare, pare, di commercio del sale. Morto di malaria contratta nella pineta romagnola. Dante, colui che nei secoli successivi sarebbe divenuto Il poeta, Il padre della lingua italiana, colui che aveva sistemato tutto l’universo in cento canti, disponendo un sistema perfetto di immagini, di significati e di rimandi geometricamente incatenati  come le sue rime. Ebbene, quel Dante si ritrova all’improvviso nel buio e ne ha paura. Eppure era uno che era stato in battaglia, che amava le donne, la caccia col falcone, sfinirsi a cavallo se perdeva la tramontana. Dante smarrisce le fasi del mondo esteriore e di quello interiore e, come accade in questi casi, si ritrova solo. Dante, però, non vuole perdere tempo e ci indica la via: è possibile uscire da quello sfasamento se si incontra qualcuno che senza paura chiami con forza a rialzare lo sguardo. Qualcuno che mostri una via per cui risalire e che ci sveli che non siamo più soli. La paura, quella della solitudine perché siamo andati fuori sincrono col mondo, è solo il grande inizio  – dopo ci sarà la paura delle visioni tremende, ma è già un’altra cosa: qualche verso più in là attende una compagnia che accoglie e conduce fino alla luce. Una relazione che sostiene il cammino senza sostituirsi. E’ così nella vita, è così nella letteratura. In fondo non c’è poi una gran differenza, perché la letteratura serve quando aiuta ad andare. Lo scrittore bulgaro Georgi Gospodinov in una recente intervista ha detto: “Dopo aver mostrato la durezza della realtà uno scrittore ha due possibilità. La prima è spingere la testa del lettore nel fango e dire che non c’è salvezza. L’altra, per trovare significato e consolazione anche nel fango, nel buio, è camminare insieme al lettore fino alla fine del mondo e parlare lungo la strada (…) Nel sonno e nella morte ognuno entra da solo, ma fino alla porta è bene che ti accompagni qualcuno.”. Dante ci mostra uno sconvolgimento che manda fuori giri il cuore, ma mostra anche la via per la salvezza: trovare uno, uno disposto a camminare con te. Nel 2021 ricorderemo i 700 anni dalla morte di Dante. Al di là delle tante cerimonie che si terranno un po’ ovunque, sarà l’occasione per smarrirsi e ritrovarsi con lui scoprendo che, anche nella selva più oscura, non siamo mai soli.

Alessandro Vergni

Articolo pubblicato su BombaMag 2020/3.

Potrebbe interessarti anche...

Lascia un commento