A un tratto lei incrocia le braccia e sporgendosi sul piatto dice: a cosa serve la poesia? A niente, rispondo io, a niente. Lo dico ogni volta che mi fanno questa domanda. Ogni volta che questa domanda me la faccio io. Sarà perché la poesia è l’arte più povera tra le arti, fatta com’è solo di parole, di silenzi, d’aria. Per la poesia, non servono nemmeno carta e penna, anticamente era un’arte orale. Sarà perché per tanti anni ne ho fatto a meno, e non è che abbia sofferto molto. Poi accade che ti innamori, che un amico muoia e tu ti ritrovi col cuore-trattore… cuore-trattore? Ecco, la poesia accade così, quando davanti a certe cose che succedono ti accorgi che le parole ordinarie sono finite. E allora o stai zitto e lasci correre, o ti metti a incatenare le parole solite in un ordine nuovo per comprendere meglio quello che stai vivendo. Oppure ti sorprendi per qualcuno che ha descritto la tua esperienza meglio di come lo faresti tu. Dice Ovidio negli Amores: “Da chi questo poeta ha appreso la mia vicenda per poterla narrare?”. La poesia non è estetica, passatempo, intrattenimento. Non è nemmeno spiegazione della realtà, per quello ci sono gli articoli di giornale, i saggi critici, i manuali. La poesia è un metodo di conoscenza. Si fa poesia, si legge poesia perché quel modo astruso di accostare le parole, meglio di ogni discorso logico, più intimamente di ogni analisi chimica, descrive ciò che siamo. I poeti hanno questo dono: guardare il mondo e, intuendone i legami segreti, andare alla loro sorgente. Poi altre discipline arrivano con il loro metodo, magari a distanza di secoli, a verificare la correttezza di quelle intuizioni. “La scienza è troppo lenta” diceva Rimbaud. Basta pensare a Lucrezio, nel De rerum natura, primo secolo a.c., anticipa la questione degli atomi; o a Dante che nella Commedia scrive “Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna: sustanze e accidenti e lor costume quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.” (Par. XXXIII). Siamo nel 1300 e lui ha appena descritto in un’immagine il Big Bang. Che poi Big Bang, luce fossile e tante altre espressioni usate dagli scienziati, sono anche quelle immagini poetiche usate per nominare l’universo – ma allora anche gli scienziati, a modo loro, sono poeti? Nominare il mondo, nominare noi. La poesia è un’arte inutile e nominativa, soggettiva, nel senso che compie un’azione: conoscere. Un’azione sovversiva dell’apparenza delle cose. Non è un caso se ogni volta che un potere si costituisce, i primi soggetti che vengono resi organici o eliminati, che poi è lo stesso, sono i poeti e gli artisti. Virgilio lavorava per Cesare Augusto, Osip Ėmil’evič Mandel’štam fu mandato a morire in Siberia per opera di Stalin, Pavese in esilio a Brancaleone su ordine di Mussolini. Nominare, sovvertire, far conoscere più in profondità il mondo e noi a noi stessi.
21 marzo, giornata mondiale della poesia. Ricorrenza inutile tra tante altre giornate inutili. Sia allora l’occasione per riscoprire qualcosa che, forse, troppo inutile non è.
Alessandro Vergni
Articolo pubblicato su Il Tirreno del 21 marzo 2021