Nella notte tra il 14 e il 15 giugno, davanti alle coste de La Maddalena, dove prestava servizio come capo nucleo Sdai (Sminamento difesa anti mezzi insidiosi) della Marina Militare è scomparso a 26 anni, per un incidente nel corso di una gita in mare, l’ufficiale Pietro Stipa. Una morte piena di dolore, ma aperta al mistero e a una luce che accende la speranza.
Sabato mattina. La strada che attraversa la campagna toscana si inerpica tra boschi di sughere. La taglia solo la luceche filtra fra i rami vincendo le ombre. Nessuna macchina ci viene incontro. Fa caldo, ma all’aria condizionata preferiamo lo schiaffo di quella vera che entra dai finestrini, come una volta, cantiamo sulla radio. Tra una canzone e l’altra le considerazioni delle professoresse sulla maturità ormai alle porte. Chiara emerge dal sedile e ci avverte che è successa una cosa «grave»: è morto il figlio di nostri amici in un incidente in mare questa notte. «In che senso?», mi sento dire. Che domanda illogica, penso un istante dopo, eppure la prima domanda che è venuta fuori è proprio quella. Il “come”, il “quando”, il “con chi fosse” e “perché si trovasse lì proprio in quel momento” non sono che aspetti secondari. A queste domande arriveranno risposte nel giro di qualche ora, per rispondere a quell’altra non basterà una vita. Nella macchina si sentono solo l’aria e le frasche che frustano lo specchietto di destra ad ogni restringimento di carreggiata. Ho spento la radio, o forse l’ha fatto Sara, seduta accanto a me; non lo so, ho perso il filo. Ognuno adesso prosegue nel viaggio da solo. La campagna che scorre fuori dal finestrino sembra ancora più bella e non capisco cosa c’entri con quanto è accaduto ai miei amici, con quanto sta accadendo a noi. Morto “in che senso?”. «Aprile è il più crudele dei mesi», scrive Eliot in Waste Land, perché quel mese segna la rinascita della natura in un mondo in cui invece continua la devastazione dell’umanità. «Dove è Dio?», chiede mia figlia dopo pranzo mentre passeggiamo per le vie assolate del paesino toscano. Vorrei risponderle tante cose, ma le parole non trovano il giusto incastro se non quella domanda che ritorna e toglie il fiato: «In che senso?».
Martedì pomeriggio. Oggi al funerale la chiesa era bianca. Ci saranno state mille persone, giovani, per lo più, nelle candide divise della Marina, con il picchetto d’onore; la sua forza armata, ufficiale altamente specializzato in operazioni subacquee. Un corpo solo fatto di tanti corpi che si stringono tra loro, ai genitori e ai fratelli che hanno parlato di un ragazzo abitato dal mistero, di una corsa che non finirà mai, dell’augurio perché il fratello possa avere per sempre il vento in poppa. Un corpo che si allarga formando un nuovo unico corpo con noi che siamo lì. Dalla loro compostezza, dalle parole dette dai superiori, dai colleghi e dai compagni di corso dal pulpito, percepisco che l’infinito, per la vocazione a cui hanno aderito, è un elemento che fa parte del loro paesaggio, così come l’esperienza della morte che non è stata rimossa, come invece per tanti altri, dall’orizzonte della vita. La qual cosa, mi sembra di intendere, incide nella loro coscienza fino a farli parlare di “quella” morte senza disperazione, invocando ora la protezione del compagno chiamato a una nuova missione dal cielo, in cielo, in unità con loro che, quaggiù, dovranno inabissarsi ancora verso il pericolo. «D’ora in poi il nostro immergerci sarà ancora più sicuro, perché ci sarà Pietro a guardarci da lassù vegliando su di noi», dice il comandante. Un corpo fatto di canti durante la liturgia, di riferimenti al sacro nelle formule e nei motti. Forma e sostanza a volte coincidono, e la sostanza da cui proviene questa forma è riconoscibilissima: un’umanità ancora cristiana. Un corpo, una delle ultime testimonianze visibili di popolo. «Non si volta chi a stella è fiso», ripete il comandante consegnandoci l’ultimo saluto. È il motto dei palombari della Marina Militare. Non voltarsi verso il dolore, ma tenere lo sguardo fisso al destino; guardare in alto perché la morte non ha l’ultima parola. Il senso è Mistero, per questo non riusciamo a comprenderlo fino in fondo, per questo è possibile navigare ancora.
Alessandro Vergni
Articolo pubblicato su L’Osservatore Romano del 22 giugno 2024