“Tu le vedi le croste sulle ginocchia dei ragazzi?”. Sabato mattina. Al centro della piazza mi arriva secca questa domanda. “Dico – continua la voce al telefono interrompendo il mio silenzio – io e il mio amico alla loro età “spianammo” un intero quartiere”.
No, i ragazzi quei segni addosso non ce l’hanno più. Quelle cicatrici si sono in tanti casi trasferite dalla superficie, dove erano ben visibili, più in profondità, dove occorre immergersi per andarle a scovare. D’altronde, nella società dell’apparenza, il visibile non è bene che porti il segno dell’imperfezione. Meglio mettere tutto sotto il tappeto, anche se quel tappeto è la nostra pelle. Dovremmo piangere per questo, noi genitori intendo, e dovremmo domandarci se la mancanza di quelle croste sia un bene o un male per i nostri figli. Dovremmo poi chiederci se ciò non sia dovuto anche all’atteggiamento iperprotettivo che riserviamo loro. In quanti tra noi non pensano che, tutto sommato, il fatto che non possano uscire di casa sia molto rassicurante e comodo? Li abbiamo tutto il giorno a disposizione e sotto controllo – pensiamo illudendoci. Un cortocircuito molto pericoloso: noi diventiamo l’orizzonte – spesso sgradito – della loro vita, mentre loro finiscono per diventare il contenuto della nostra. Riduzione del rischio, diminuzione dell’impatto, spesso doloroso, con la realtà e con la sua continua chiamata a fare delle scelte. Forse è perché ci rendiamo conto di aver messo al mondo degli esseri senza poter garantire loro una vita priva di sofferenza. È come se ci accorgessimo che, chiamandoli dal nulla, abbiamo suscitato una promessa che non siamo in grado di mantenere. Forse percepiamo di non essere in grado di curare il loro dolore perché non sappiamo come curare il nostro. E questo fa male. Dare la felicità, però, è affare di Dio, non nostro, mi disse un amico qualche anno fa quando i miei figli erano ancora piccoli. Quelle croste non ci sono, prima che per la loro paura di cadere, per la nostra.
Allora serve qualcuno che ci inviti continuamente a non temere quel sangue, perché è inevitabile che prima o poi esso venga fuori se si decide di vivere, se si sceglie di diventare uomini. Lo fa Papa Francesco dall’inizio del suo pontificato invitandoci ad uscire: meglio una Chiesa ferita, ma in uscita, piuttosto che una Chiesa malata perché chiusa in casa. Parole profetiche rispetto alla situazione attuale. Del resto, la Chiesa, ha la pretesa di richiamare certi valori non appena perché “fa così chi è cristiano”, ma perché desidera così chiunque voglia vivere in modo pienamente umano. Il cristianesimo ha bisogno di socialità, dell’incontro tra le persone – funziona così da duemila anni, in tempo di pace, di guerra, di peste e carestia – perché questo è ciò di cui ha strutturalmente bisogno l’uomo. La vita per svilupparsi e maturare ha bisogno di tempo, di spazio e di incontri capaci di farsi carico della gioia e del dolore. Il salmo 8 dice: “Cos’è l’uomo perché te ne ricordi, e il figlio dell’uomo perché te ne curi?” Dopo tutti questi mesi di chiusura, come stanno i ragazzi? Chi si prende cura delle loro ferite? E delle nostre?
Alessandro Vergni
Articolo pubblicato su L’Osservatore Romano del 9 febbraio 2021