Conversazione con Gianfranco Lauretano
Il 2020 segna i cento anni dalla morte di Federigo Tozzi, scrittore senese troppo spesso ignorato, morto a Roma di influenza spagnola. Gianfranco Lauretano, poeta, traduttore, insegnante, in occasione di questo anniversario, ha pubblicato Federigo Tozzi – Una rivelazione improvvisa (Rimini, Raffaelli Editore, 2020, pagine 84, euro 12) in cui tenta, con uno sguardo nuovo, una lettura di questo grande cantore dell’età contemporanea.
Perché disturbarsi a scrivere un libro su Tozzi?
Perché a cento anni dalla sua morte ciò che Tozzi ha scritto è ancora attualissimo. In certi casi, per certi aspetti, ancor più necessario. Penso ad esempio alla deriva della nostra narrativa, basata soprattutto su effetti e colpi di scena per intrattenere il lettore. Atteggiamento totalmente estraneo a Tozzi, che ci riporta alla sostanza della letteratura. Per questo è difficile da leggere: la sua opera è tutt’altro dalla società dello spettacolo che persino lo stile dei narratori di oggi sembra voler corteggiare.
Spesso ha subìto letture riduttive in chiave psicoanalitica: cosa significa leggere Tozzi “con gli occhi aperti”?
Dice bene quando definisce riduttiva la lettura psicanalitica. La psicanalisi è uno strumento utile per comprendere un autore ma la psiche di un autore non è il senso e l’oggetto della sua opera. Tozzi possiede alcuni tratti biografici che sono una forte tentazione di lettura in quel senso, basti a mo’ di esempio il suo rapporto col padre. Ma la psicanalisi, così troppo frequentemente tirata in ballo sulla scia dell’autorevolezza di Giacomo Debenedetti, ha rappresentato per la sua opera anche un vicolo cieco. È ora di allargare lo sguardo, entrando nello specifico della letteratura che, ripeto, non è psicanalitico. Troppo a lungo abbiamo compiuto questo errore epistemologico. E non vale solo per Tozzi.
Tozzi non ha trovato grande fortuna nella storia della letteratura italiana. A cosa è dovuto questo oblio?
Paradossalmente alla forza e alla bellezza della sua opera. Scrive troppo bene, è troppo potentemente scrittore, poeta e narratore. Non ammicca mai al lettore, non prende scorciatoie, non gli indora la pillola. Non concede mai riposo. Ogni sua pagina, soprattutto nei grandi romanzi, è assoluta. Per compiere un’eventuale scelta antologica di testi suoi, basta aprirli a caso: va sempre bene. Un rapporto con lui è dunque faticoso. E noi viviamo in un’epoca in cui la disponibilità all’ascolto, alla fatica verso l’altro è sempre minore.
I protagonisti dei suoi romanzi sono persone prevalentemente sfortunate, incomprese, che non riescono ad avere rapporti “normali” con l’altra gente. Come mai l’insistere su questi ritratti? Esiste per loro una forma di riscatto?
Il tema dei temi è proprio quello delle relazioni: soprattutto la difficoltà, l’impossibilità delle relazioni: tra uomo e donna, padre e figlio, possidente e dipendenti, fra amici e colleghi. La sua opera è essenzialmente tragica. Ma, poiché è anche realista, non tende cioè a fantasticare troppo, potremmo dire che coglie questo tema portante da ciò che vede. Dunque l’incapacità di incontrare l’altro è non solo di Tozzi (anzi, lui ne era personalmente capace: fu amico di Marino Moretti, lavorò fianco a fianco con Pirandello, ebbe sodali che gli furono sempre accanto, come Domenico Giuliotti) ma dell’epoca che chiamiamo modernità: un’epoca tragica, per Tozzi, perché vi si compie la perdita del principio unificante che permette agli uomini di stare e costruire insieme, tutto a vantaggio dell’individuo. Ma un individuo che, alla fine, non sa stare né conoscere se stesso. In definitiva i protagonisti di Tozzi sono degli inetti sui generis, perfettamente in linea con la letteratura coeva. Ciò che li riscatta è il permanere di un’attenzione centrale sul mistero dei loro atti; Tozzi è realista ma non naturalista, c’è sempre uno scarto, un imprevisto che potrebbe rimettere in moto il bene. Anche in ciò consiste l’inettitudine dei personaggi tozziani: vedono sempre, a un certo punto, il bene, ma non lo scelgono, oppressi come sono dalla solitudine moderna.
A più riprese lei avvicina l’opera di Tozzi a quella di Dostoevskij. In cosa si somigliano? Tozzi conosceva l’opera dello scrittore russo?
La filologia storica ha dimostrato la presenza di numerosi libri di Dostoevskij nella sua biblioteca personale, per cui la sua conoscenza non è più in discussione. Le somiglianze sono numerose: come nel caso del russo, a Tozzi interessa scrivere romanzi che siano, più che lo svolgimento di una trama, l’approfondimento dell’umano. Col progredire della storia, progrediamo anche nella conoscenza antropologica, psicologica e spirituale dei suoi personaggi e ciò avviene attraverso procedimenti narrativi che li accomunano: un solo esempio è quello del monologo interiore e dell’attenzione particolareggiata alle sfumature dell’anima. Si potrebbe poi parlare della costante compresenza in entrambi di basso e sublime, di inferno e anelito assoluto. C’è inoltre un aspetto in Dostoevskij che non va sottovalutato: il paradigma evangelico che, come è stato dimostrato, lo porta a scrivere capitoli e interi romanzi sul calco del Vangelo, cosa riscontrabile anche in Tozzi, come ha mostrato tra gli altri Marco Marchi.
In Tozzi è presente anche una forte componente cristiana. Che tipo di cristianesimo è il suo?
Un cristianesimo medievale, sanguigno, robusto, forte, quello che lui andava a cercare nei testi della letteratura senese del Due e Trecento, su cui ha composto anche alcuni libri. La raccolta di poemi La città della Vergine ne è una chiara traccia letteraria. Tozzi finì per dichiararsi “reazionario”, ma il termine non ha nulla di politico: egli “reagisce” al processo di desacralizzazione della realtà tipico dei suoi tempi e va a cercare il senso cristiano della sacralità del mondo nel medioevo: si pensi alle lettere infuocate e assolute di santa Caterina da Siena. Ma non è nostalgico, per nulla: l’uomo stesso era poco incline a sentimentalismi e nostalgie. È la sua battaglia, la sua domanda dura, brusca e fuori dai tracciati principali dell’esangue spiritualità moderna.
Il cofanetto pubblicato da Raffaelli Editore è composto dalla raccolta inedita di poesie «Specchi d’acqua»: perché concentrarsi proprio su queste liriche?
Delle tre raccolte di poesie di Tozzi, intanto, questa è la più bella. La zampogna verde, libro d’esordio, è ancora troppo giovanile e risente delle letture fatte, soprattutto di D’Annunzio; La città della Vergine è un unicum, un libro poematico difficile da leggere, incentrato sulla sensibilità e anche il linguaggio medievale. Gli Specchi d’acqua sono da una parte gli esiti più maturi di Tozzi poeta, che poi intraprenderà la strada della narrativa, e dall’altra sono incentrati su alcuni aspetti fondamentali per capire anche i romanzi e le novelle. Si tratta di un canzoniere nel senso più genuino del termine, diviso più o meno in due parti: nella prima si canta una donna (o forse più d’una) nella seconda la donna diventa l’anima stessa. È uno dei temi costanti di Tozzi, che potremmo definire proprio un cercatore della propria e nostra anima. Ricerca compiuta tenendo costantemente aperta l’apertura al mistero, che vede nella natura, nell’amore umano, nell’arte e nel tempo, e che lo porta a concludere la raccolta con due testi unici nel panorama novecentesco italiano, dall’intento chiaro già fin dal titolo: Canzone alla Vergine e A Dio.
Tozzi fissa in esergo a Specchi d’acqua una frase di santa Caterina: «Ché tale diventa la creatura / quale è quella cosa che ama», parole che invitano a guardare in profondità la propria anima e che aiutano a spalancare gli occhi su uno dei più grandi autori del Novecento italiano.
Alessandro Vergni
Intervista pubblicata su L’Osservatore Romano del 19 novembre 2020.