Una lente potente

Giornata mondiale della poesia, 21 marzo. Dantedì, 25 marzo. Due date per festeggiare la letteratura. Oggi, però, mentre siamo alle prese con l’emergenza Covid-19, abbiamo tempo da perdere con la poesia e con l’arte? E poi: cosa è l’arte e cosa vuol dire farci i conti? Non esistono definizioni precostituite e ognuno deve rispondere a partire dalla sua personale esperienza con essa. Potremmo dire che l’arte nasce dal contraccolpo che alcuni, dotati di una sensibilità e di un talento particolari, accusano nell’avvertire una sproporzione tra il loro essere e ciò che vedono accadere intorno. E’ il verificarsi di un fenomeno che manda fuori sincrono rispetto al normale scorrere delle cose. Può accadere per un surplus di positività oppure di negatività, ché poi non fa differenza. Dante scrive la Commedia per la perdita della donna che ama, pensiamoci bene: l’opera maggiore della nostra letteratura nasce dalla privazione di una sovrabbondanza prima ricevuta.
Stare davanti ad un’opera d’arte, dunque, è stare al cospetto dell’esperienza di un altro. Per farlo occorre ciò che si rende necessario in ogni rapporto autentico: essere attivamente passivi e lasciare che un altro sguardo penetri in noi. Lo descrive bene Dante: “Già non attendere’ io tua dimanda,/ s’io m’intuassi, come tu t’inmii”. (Paradiso, Canto IX, vv. 80-81). Non avrei bisogno di farti altre domande, se solo mi immedesimassi in te, come tu ti immedesimi in me. L’arte può sembrare perdita di tempo e invece è la possibilità di andare, insieme, più veloci, al centro delle questioni vitali. Il primo movimento che occorre fare per iniziare a comprendere ogni lavoro artistico, quindi, è immedesimarsi con l’altro che mi sta parlando. Mettersi in dialogo senza opporre resistenza. L’arte è un rapporto.

C’è poi un aspetto per cui la letteratura, così come tutta l’arte, è fondamentale per l’uomo. Ce lo mostra la poetessa russa Anna Achmatova nel racconto di un episodio della sua vita: «Nei terribili anni della “ežovščina” (epurazione staliniana) ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado (per visitare il figlio incarcerato). Una volta un tale mi riconobbe. Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): “Ma lei può descrivere questo?”. E io dissi: “Posso”. Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto». L’arte è una lente potentissima per guardare e dare nome, anche a ciò che nome, apparentemente, non ha, a ciò che a volte sembra negare ogni significato. Lo fa attraverso l’invenzione di linguaggi inconsueti. Si ricorre alla poesia, quando le parole solite non bastano più, perché la realtà sfugge alla gabbia del già saputo. La realtà è in continuo divenire, nominarla e rinominarla è qualcosa che ha a che fare con l’inizio dell’umanità: per la tradizione giudaico cristiana Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza e gli dona il potere di dare il nome alle cose. Quindi, nominare il mondo, ci riporta alla nostra origine e al rapporto con Chi ci ha fatti. L’arte è un movimento di ri-conoscenza.

C’è infine un terzo aspetto per cui l’arte ha un valore, oltre che antropologico e spirituale, anche sociale: quello di accompagnare gli uomini. In questi giorni di smarrimento per quello che stiamo affrontando, sorprende come in tanti sui social, su WhatsApp o attraverso altri canali abbiamo sentito il bisogno di condividere con amici e parenti dipinti, poesie, canzoni, spesso associando le une alle altre. È un riflesso incondizionato per cui, anche di fronte al male, l’anima cerca la bellezza. Ovviamente c’è un modo di intendere questo come puro intrattenimento fine a se stesso, ma il dato che per primo colpisce è come tantissime persone abbiano individuato nell’arte un appiglio per resistere al senso di disorientamento. In tanti siamo andati a caccia di parole e colori che potessero descrivere i sentimenti che abitano le nostre giornate. Abbiamo dovuto cercare i versi di chi, essendosi trovato prima di noi in una situazione di difficoltà, ci potesse offrire consolazione e speranza. Vedendo tutto questo viene in mente una scena accaduta tantissimi anni fa. Un treno avanza nella steppa siberiana, nei vagoni le persone sono stipate alla stregua di animali: sporco, freddo, fame. All’interno di uno dei vagoni un uomo cerca, per come può, di farsi vicino ai compagni: recita i versi di un poeta vissuto 600 anni prima in Italia, tra Firenze e Ravenna. L’uomo sul treno si chiama Osip Mandel’štam, è uno dei maggiori poeti del ‘900 e sta ri-dicendo, in quel girone infernale dove sono precipitati, la Divina Commedia. Non giungerà mai a destinazione, morirà di stenti in un campo di transito presso Vladivostok. La sua lezione, però, raggiunge noi e ci dice che sì, di Dante e di poesia, oggi, c’è davvero bisogno.

Alessandro Vergni

Articolo pubblicato su L’Osservatore Romano del 27 marzo 2020.

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